IL ROMANZO
Il vento scivolava leggero tra i campi, portando con sé l’odore acre della terra bagnata e il respiro segreto dei monti che attorniano la città. Era un vento antico, che pareva conoscere le pietre, i fossi, le case basse aggrappate alla collina, e perfino le ombre che da secoli si muovevano tra quelle stesse strade. Ogni zolla custodiva un ricordo, ogni sasso custodiva un nome; e bastava chinarsi a sfiorare il suolo per avvertire, quasi fisicamente, la memoria di chi vi aveva camminato prima. La storia di un abitato non si scrive solo nei libri, ma rimane imprigionata nelle mura che resistono, nelle rovine che crollano, nelle pieghe del paesaggio che sembra immutabile e invece cambia ogni volta che lo si guarda.
Nell’anno 1894, Isernia non era soltanto un piccolo centro del Molise sebbene a capo dell’omonimo Mandamento: era una frontiera di memorie contese, un crocevia di destini che oscillavano tra fedeltà al passato borbonico e la dura concretezza dell’Italia unita. Le famiglie più antiche si misuravano ancora con l’eco dei loro privilegi e delle loro sconfitte; le nuove autorità cercavano di radicare un ordine fragile, continuamente minacciato da chi, nell’ombra, rimpiangeva un regno dissolto. I giorni correvano veloci tra il suono delle campane, le voci nel mercato e il clangore dei ferri al passaggio dei cavalli. Ma sotto la superficie di quella vita quotidiana si agitava un’aria più densa, un silenzio trattenuto che pareva preludere a qualcosa di memorabile.
Infatti quell’anno il fischio della locomotiva echeggiò per la prima volta tra campi dell’altopiano di Isernia. Arrivò in città come un suono straniero e insieme familiare, un soffio lungo che pareva aprire varchi nell’aria tersa d’inizio primavera. Il ponte di Santo Spirito tremò appena al passaggio del convoglio; la colonna di fumo, di un grigio trasparente, si distese in alto e scivolò via sulle alture, verso il limitare meridionale dell’altopiano. Isernia si strinse addosso scialli e giacche, non per il freddo — la stagione stava mutando — ma per quella sensazione di novità che le si posava addosso come una mano leggera: la stazione nuova, inaugurata a metà del mese, la Strada Nazionale degli Abruzzi che portava e riportava persone, merci, voci. Da quel giorno il tempo prese ad avere un rumore diverso.
Oltre il paese, dove l’altopiano si stendeva in un respiro più ampio e il vento sapeva di resina e di terra arata, c’era una radura che la gente chiamava “il Campo del Vescovo”. Non aveva storie da raccontare, né vecchie liti, né giuramenti, né ombre di duelli: era un terreno vergine, innocente, un ovale d’erba assolata che s’apriva tra gli alberi, con il margine del bosco a custodirlo come una cornice. Da lì, nei giorni limpidi, il profilo dei monti faceva da sfondo, netto e lontano, con Miranda e Pesche quasi appese al cielo. In quel luogo non era accaduto mai nulla: solo passi, canti d’allodole, il fruscio dello scoiattolo che s’arrampica, il pascolo tiepido delle ore centrali. Eppure, proprio quell’assenza di memorie pareva preparare lo spazio a qualcosa che nessuno, tra i contadini e i cavallanti che passavano lungo la Strada Nazionale, avrebbe saputo prevedere.
Le famiglie Delenis, Manselli e Rampini, antiche case di Isernia, s’erano sempre guardate con rispetto e una misura d’onore che non aveva bisogno di proclami: erano bracci dello stesso tronco, diramazioni di storie cittadine che avevano alimentato opere pie, feste patronali, studi e possedimenti. Erano famiglie antiche legate da quell’educazione fatta di saluti lenti sotto i portici, di strette di mano al mercato, di pranzi domenicali a cui si brindava senza alzare la voce. I giovani, cresciuti tra precettori, ginnasio e passeggiate, fiere di cavalli e qualche scappata al caffè, condividevano la stessa inquietudine di quell’epoca di passaggio: l’Italia unita era un dato di fatto, e tuttavia ogni novità — il treno, le nuove strade carrabili, i giornali che arrivavano con la posta — accendeva una curiosità che si confondeva, talvolta, con la noia.
Fu da quella noia che nacque l’idea del gioco. Un duello finto, un’innocente rappresentazione, una bravata studiata per mettere alla prova il cuore di una ragazza che indugiava, per smuovere, con un gesto clamoroso, un sentimento esitante: Carlo voleva scuotere la sua bella che faticava a dire di sì, e che forse un atto estremo avrebbe costretto a palesarsi.
Il giovane Delenis, muovendo pedine con la leggerezza incauta dei diciott’anni, aveva immaginato che una scena forte, una paura controllata, potesse costringere i sentimenti a manifestarsi. Non un fatto d’onore — ché non v’era offesa — non una vendetta, né residuo di antiche schermaglie: solo il desiderio di forzare un pudore. Di fronte l’amico del cuore Bernardino Manselli a impersonare la controparte, non per riparare alcun torto ma solo per amicizia, per accontentare la volontà dell’amico fraterno. Uno scherzo, nulla di più. Così lo intendevano i protagonisti, così lo accolse l’amico Giacinto Rampini, che accettò di figurare come padrino di Carlo.
Il sole batteva alto quando i due si disposero nella radura. Le pistole brillavano tra le mani inesperte, i passi furono contati con una serietà teatrale, e il silenzio che avvolse il Campo del Vescovo sembrò quello delle grandi occasioni. Tutto era stato preparato per somigliare a un vero duello, eppure tutto avrebbe dovuto rimanere un gioco. un inganno della giovinezza, un teatrino che il tempo avrebbe presto dimenticato.
Ma il gioco, si sa, è fragile. Basta un istante, un errore minimo, un gesto più deciso del dovuto, e la finzione si incrina. In quell’attimo sospeso, tra l’erba che ondeggiava e gli occhi che si scrutavano, i cuori batterono forte, come se davvero si fosse giunti sull’orlo di una decisione irrevocabile. Bernardino, forse, nascondeva dietro lo sguardo un’ombra che gli altri non avevano colto. Dietro i suoi fogli per schizzi, con i quali diceva di voler fermare paesaggi e figure, c’era un segreto che non rivelava: i disegni erano solo un pretesto, un alibi. Non ne parlava agli amici, non rivelava i motivi delle sue assenze. Si limitava a nascondere la verità dietro un gesto innocuo, un interesse artistico per celare un segreto orrendo solo intuito dal ragazzo.
In città, intanto, la vita continuava ignara. I bottegai disponevano la merce, le donne riempivano d’acqua le conche alle fontane, le campane segnavano le ore e i vecchi discutevano nelle piazze. Nessuno poteva immaginare che, a pochi passi dalla nuova stazione, in quella radura intatta, due giovani stessero mettendo in scena una prova che avrebbe avuto conseguenze inattese.
Intanto il capitano Massimiliano Viti, da qualche tempo aveva imparato il passo della città come si impara il ritmo d’una ballata: facendo attenzione alle ripetizioni e alle pause. La mattina spesso lo si poteva incontrare al Caffè Pasticceria di Ciampitti, sotto l’arco di San Pietro: un caffè forte, il giornale odoroso di inchiostro, due parole dette e molte taciute. Aveva l’aria di chi preferisce osservare, di chi sta attento ai particolari: i tagli nuovi delle giacche, l’odore dei pasticcini appena sfornati, il gesto con cui qualcuno — per abitudine o per nervoso — infilava la mano nella tasca dei pantaloni. A riposo dai Carabinieri, Viti non aveva smesso di servire l’idea di legge che gli abitava nelle ossa: era una vocazione, una forma d’ordine che lo aiutava a respirare. Talvolta, il pomeriggio, portava i bracchi — Sale e Pepe — a sciogliere le zampe verso la pianura soleggiata, in attesa della riapertura della caccia; e non v’era sera, rientrando, in cui non ringraziasse la cucina accesa e la discrezione infaticabile della cuoca Adelina.
Nessuno, in quelle mattine limpide di Aprile, avrebbe potuto prevedere come la leggerezza d’un gioco avrebbe innescato una catena di eventi. Il Campo del Vescovo, così pacifico, così francamente assolato, fu scelto proprio perché non aveva memoria di drammi: appariva adatto a contenere, senza offendere nessuno, una messinscena cavalleresca, quattro testimoni scelti tra i più fidati, due pistole scariche o con cariche leggere, la distanza misurata a lunghi passi.
I ragazzi si disposero secondo le regole del gioco che si erano imposti. Rampini prese posto come garante silenzioso, Bernardino e Carlo si fronteggiarono, gli amici ignari assistevano allibiti. La tensione, appena percettibile, cominciò a crescere. Era tutto un finto duello, una messa in scena — eppure i cuori, nell’istante del silenzio che precede lo sparo, batterono come se si trattasse di vita vera.
Così, in quella radura innocente, scelse di posarsi il destino: non con fragore, ma con l’ambiguità di un gioco che si fece serio, di uno scherzo che avrebbe aperto la porta a conseguenze impreviste.
Il Campo del Vescovo, fino a quel giorno muto, si scoprì testimone di un atto che avrebbe intrecciato la leggerezza della giovinezza con il peso della vita.
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